Teatro

"Rimettere il teatro al centro della vita civile": il Napoli Teatro Festival di Ruggero Cappuccio

Ruggero Cappuccio
Ruggero Cappuccio © Teatro.it

Ricordando i risultati della decima edizione e avvicinandosi a grandi passi alla prossima (è di oggi la notizia della partecipazione di Sting a il 30 luglio all'Arena Flegrea), il Direttore Artistico Ruggero Cappuccio parla con a Teatro.it del passato e del futuro.

Sedimentate le impressioni ed analizzati i risultati della decima edizione del Napoli Teatro Festival, sembra il momento giusto per alcune riflessioni sulla manifestazione con il Direttore Artistico Ruggero Cappuccio, anche per disegnare un ponte ideale con la prossima edizione.

Direttore, fra le intenzioni dichiarate c'era quella di proporre un concetto di teatro sociale, a partire dal costo del biglietto, un modo per rimettere il teatro al centro della vita civile. È riuscita l'operazione?

 Il costo del biglietto è stato drasticamente ridotto, portandolo dai 34€ delle scorse edizioni ad un posto unico di 8€, di 5€ per gli under 30 e gratuito per categorie svantaggiate. Lo spirito è semplice: queste manifestazioni pubbliche, se godono di finanziamenti statali o europei, attingono alle tasse già pagate dagli italiani o dai cittadini europei, quindi quante volte bisogna pagare il biglietto? Prima con la dichiarazione dei redditi e poi al botteghino? Le tasse sono in relazione ai servizi, e dunque se un cittadino italiano ha diritto ad essere curato gratuitamente in un ospedale, non vedo per quale ragione dovrebbe pagare tanto per uno spettacolo già sostenuto con fondi pubblici.

Un Festival è una piattaforma di proposte, quindi è augurabile che un cittadino voglia vedere 5 o 10 spettacoli: come potrebbe permetterseli, a 34€ l'uno? Questo per me è molto importante, perché riguarda la sincerità con cui si propongono le cose.
C'è un altro aspetto che può sembrare paradossale: nel nostro paese la cultura ha rappresentato un interesse forte soprattutto per le persone che dispongono di pochissimi soldi; l'iniziativa conferma l'idea del teatro come diritto civile, ed i risultati carnali sono rappresentati dalle tante persone che hanno ringraziato la Fondazione e me stesso, fermandomi per strada: erano impiegati, professori in pensione, giovani disoccupati...
Non dimentichiamo poi che in passato spesso le sale restavano vuote, e che non si produce quindi nemmeno un vantaggio economico mantenendo alti i prezzi, mentre il Festival ora paradossalmente ha fatto anche il record di incassi...

Quali, fra le innovazioni apportate, saranno sicuramente riprodotte nel 2018?

C'è stato un accurato piano di comunicazione, a partire dall'idea del manifesto del Napoli Teatro Festival affidata alla mano felicissima di Mimmo Palladino. Per la prima volta nella storia del Festival era possibile imbattersi a Roma Termini e nella stazione centrale di Milano in un totem informativo, ci sono stati oltre 50 passaggi televisivi nazionali ed informazioni su TG nazionali, e la collaborazione con Radio 3 suite, media partner ufficiale. Sono dati che significano l'attenzione riconquistata di un lavoro che ha riassunto una sua centralità e credibilità.

Poi il dialogo forte con la città, che si è sentita finalmente ascoltata: più Napoli si occuperà della sua identità e più sarà internazionale. Perché è interessante che Eimuntas Nekrošius sia arrivato a Napoli? Perché se Raffaele La Capria non avesse letto Fitzgerald forse non avrebbe scritto “Ferito a morte”... cosa può trovare di interessante Nekrošius a Napoli, e cosa possono trovare di interessante gli attori italiani e napoletani nel suo stile teatrale? È da questi corti circuiti che nascono le cose più belle.

Ricordo una sua dichiarazione subito prima del Festival: “Elevare il livello del pubblico ad un livello di arte, anziché abbassarlo”. Ci siete riusciti?

Viviamo in una nazione storicamente forte dal punto di vista culturale, che oggi è invece clamorosamente arretrata dal punto di vista della diffusione. Quando si va a Londra, Parigi o Vienna, sui giornali che si occupano delle iniziative più rilevanti in Europa è sempre molto difficile leggere il nome di città italiane qualificate come all'avanguardia.

Nel nostro passato meraviglioso, Gioacchino Rossini a 24 anni poteva entrare al Teatro Argentina di Roma e rappresentare il Barbiere di Siviglia, oggi invece è l'epoca dei tristi cartelloni lirici in cui è diventato complicatissimo leggere il nome di un compositore contemporaneo. Ben vengano Verdi, Puccini e Donizetti, ma il '900, per non dire i contemporanei, è di rarissima percettibilità; è complicato leggere i nomì di Čajkovskij e Britten, e questo è culturalmente imperdonabile.

In Italia c'è un interesse alla narcotizzazione delle intelligenze, un interesse politico a tenere basso il famoso livello di cui parlavamo, cioè a fornire al pubblico un'idea dell'intrattenimento senza crescita culturale, e contro questa corrente nefasta ci sono persone, associazioni e teatri che si battono quotidianamente.
È il livello del pubblico che deve essere elevato a quello dell'arte, e non viceversa, mentre la politica ormai si cura soltanto del consenso. Anche per favorire questa crescita, abbiamo puntato sulla formazione dei giovani attori italiani attraverso il lavoro di maestri come Nekrosius, Janežič o Brook, che altrimenti non avrebbero mai potuto avvicinare.

Lei disse anche che "Napoli è il teatro che contiene i teatri": vale anche per gli spazi materiali? Se ne possono prevedere altri, magari non tradizionali?

Le novità devono essere ricercate, ma sempre in seno ad un senso artistico: aprire un nuovo spazio, se non è ben collegato al tipo di proposta che si sta costruendo, rischia di rimanere una operazione fine a se stessa. Inoltre, bisogna fare i conti con le necessità delle compagnie, che spesso chiedono un teatro chiuso per motivi scenografici o acustici; insomma, si deve realizzare una complicata alchimia tecnica, a partire dalla vocazione dello spettacolo.

Io ho pensato anzitutto ad una casa-madre come il Palazzo Reale, acquisito nonostante le difficoltà burocratiche, perché un Festival in una megalopoli come Napoli pone dei problemi: i migliori festival in Italia si svolgono nei piccoli luoghi (vedi Spoleto, Sant'Arcangelo, Montalcino, Volterra, o come erano Benevento e Casertavecchia), favoriti da un tessuto urbano ben raccolto, ed il Palazzo Reale ha rappresentato l'elezione del Centro, si trova anche vicino a quasi tutti i teatri maggiormente coinvolti.

A parte Jan Fabre, Angelica Liddell e Dimitris Papaioannou, il numero delle proposte internazionali è stato inferiore rispetto ad altre edizioni.
Sono d'accordo con lei, ma la risposta è molto semplice: sono stato nominato direttore il 2 novembre, abbiamo presentato il Festival il 13 marzo, la data più anticipata nella storia della manifestazione. Gli accordi con le compagnie in genere vanno trovati due anni prima, quindi è stato possibile assicurarsi soltanto i tre che ha citato, anche se vanno ricordate le presenze di Nekrosius, Janežič e Brook.

Ho preferito l'onestà ed il valore di questi lavori anziché la finzione di una sezione internazionale che però non avesse l'identità che mi aspetto e, che sarebbe stato facile creare, ma è evidente che desidero potenziare sia la presenza internazionale, sia quella della danza.
Inoltre, il Napoli Teatro Festival ha il dovere di offrire delle prime, quindi il lavoro è veramente molto complesso a causa della concorrenza di paesi come Francia e Germania, che hanno maggiore capacità di liquidazione e meno burocrazia: rispetto alle difficoltà nelle trattative, aver costruito il percorso con questi tre artisti ci rende felici come al centro di un miracolo!

Tre parole chiave per ricordare il festival 2017, e tre per disegnare il prossimo. 
La prima è pacificazione, tra le arti e tra gli artisti, e tra la città, l'Italia e il mondo, e questo già potrebbe bastare, va anche al di là delle tre parole.

Devo intervenire subito per confermarlo, perché è esattamente questa l'atmosfera che ricordo del momento in cui presentò il Festival.

Mi fa piacere che l'abbia percepito. Il Festival non serve a Cappuccio per mettere in evidenza qualcosa di personale, ma deve avere una funzione civile. Se un artista si è messo a disposizione della sua città e del teatro italiano, lo ha fatto per agevolare i processi e garantire un ascolto.

Ci vuole molta consapevolezza in questo ruolo, anche quella di sapere che non può durare all'infinito; è una esperienza graziosamente devastante se presa nel verso giusto, perché ci sono due modi di fare il Direttore: uno via mail, e l'altro mettendoci il corpo. Io conosco soltanto il secondo, sono sempre rintracciabile e disponibile al dialogo, quindi diventa faticosissimo e collide anche con la propria vita creativa di scrittore, drammaturgo e regista.
Per il 2018, le tre parole per il teatro italiano sono giustizia, coraggio ed ascolto.

Ah, questo assomiglia tanto al motto che ricordo essere legato alla sua famiglia... Iuste fortiter et pie.
Eh si, ricorda benissimo: Iuste fortiter et pie, dove pie sta per compassione, che è una forma altissima di ascolto.

Cosa dà più soddisfazione, fare il regista e drammaturgo o il Direttore?

In realtà sono facce di una stessa medaglia, per come le vivo. Anche progettare un festival é come scrivere un romanzo e fare una regia: devi decidere chi deve entrare in scena per dire che cosa e garantire a queste persone il massimo dell'autonomia artistica.

Quindi anche trovare una narrazione coerente in tutte le parti e fra tutte le parti, in maniera che sia un racconto in sé?

Sì proprio così. Ad esempio, due sezioni che mi hanno dato molta felicità, inventate in questo festival, sono la sezione Letteratura e la sezione Sportopera, perché hanno dato anzitutto la possibilità a tanti spettatori di incontrare, ascoltare, dialogare con un poeta come Tony Harrison, per esempio; l'idea fondante è che a questo mondo è tutto straordinariamente collegato: la letteratura, il teatro ed il cinema hanno origine dalla parola scritta, se non c'è un segno sulla carta non c'è sceneggiatura, quindi non c'è film, non c'è drammaturgia, né teatro, né poesia, sono tutte possibili attivazioni della parola.
Come quando si parla di pittura, si parla di scenografia, e quando si parla di musica si sta parlando di teatro di melodramma, sinfonica... sono tutte parte di uno stesso corpo, ed è davvero così evidente!